XXXIV, 139

Le stelle hanno sempre rappresentato per me qualcosa di magico. Fin da quando ero piccolo mi sono ritrovato spesso a naso in su, per quelle che credevo fossero ore a osservare l'incredibile spettacolo che la natura ogni notte ci regala.

Immobile, con le pupille dilatate all'infinito, univo i puntini e rimanevo a fissare le fantastiche figure che si formavano, fino a quando percepivo la sensazione di cominciare a comprendere la reale prospettiva delle cose, che inspiegabilmente si capovolgeva. Ero come sulla cima di una immensa montagna a guardare di sotto, un precipizio scintillante in cui da un momento all'altro sarei potuto precipitare, in una caduta senza fine. E sentivo che sarebbe davvero potuto accadere, perché di fronte a tale sconcertante maestosità tutta la teorica sicurezza degli insegnamenti sulla gravitazione universale si dissolveva.
Ero sull'orlo di uno strapiombo infinito, e sotto l'infinito.

Al tempo stesso mi sentivo sicuro e felice. C'ero (a pensarci bene non è cosa da poco), e sentivo di occupare uno spazio, per quanto microscopico, nell'ordine caotico dell'universo. Ero stato previsto anch'io e questo mi rassicurava.

Immaginavo altri occhi che vagavano affascinati in quello stesso spazio di cui vedevo solo un'infinitesima parte, ma che continuava fino ai limiti di ciò che esisteva, ammesso che un limite davvero ci fosse. Occhi umani e non.
E mi domandavo se anche loro fossero animati dalla stessa curiosità, se provassero emozioni paragonabili, in una lingua e una forma che mai avrei saputo immaginare. Chissà se qualche volta i nostri sguardi si sono incrociati, nonostante fossimo troppo lontani e ciechi per accorgercene. Chissà se anche loro hanno affidato a quelle millenarie luci sogni, segreti, promesse e desideri, e se questi illimitati pensieri stanno ancora vagando nel vuoto alla ricerca di una risposta. O di un destinatario.

Le ho sempre osservate con gli occhi dell'ignoranza, le stelle. Non ho mai voluto un telescopio, non ho mai passato pomeriggi a pancia in giù sfogliando vecchie enciclopedie e, ancora oggi, evito accuratamente ogni informazione troppo dettagliata sui processi chimici e fisici che permettono alla loro luce di giungere fino a noi.
Lo chiamo il trucco dell'illusionista. Quante volte ci è capitato di assistere a uno stupefacente gioco di carte, insistere fino all'esasperazione perché ce ne venisse svelato il segreto, e rimanerne inevitabilmente delusi nel momento stesso in cui la magia si spezzava?
Tutte le volte che mi impegno per trovare una spiegazione razionale a ciò che a prima vista non lo è, va sempre a finire che mi gioco un pizzico di magia e innocenza.

Me ne rendo conto, è un concetto estremamente vulnerabile. Nonostante l'umanità si sia sforzata per millenni, probabilmente ci estingueremo senza aver intaccato neppure la scorza superficiale della conoscenza su questa materia.
Ma i miei occhi mi bastano e mi regalano emozioni sufficienti. Non ambisco a scoprire un piccolo dettaglio in più, sapendo che ce ne sono miliardi a cui non potrò mai accedere.

Preferisco che le stelle rimangano indisturbate al loro posto, appese a fili invisibili che di notte qualcuno cala dal cielo.
Oppure attaccate a un etereo soffitto col nastro adesivo, come quando eravamo bambini.
O magari semplici buchini nel tessuto del cielo da cui filtra la luce dell'infinito, come suggeriva intrigantemente Confucio.

Loro sono là, immobili. Anche se piove, se c'è un sole che spacca le pietre, se la Ferrari non vince il campionato o se ho appena avuto una brutta giornata. Alzo lo sguardo e riesco a quasi a vederle, nonostante gli occhi. E questo in qualche modo mi conforta.
Tutte le volte.

Non ho detto niente, lo so. Ci sono sentimenti che non si riesce mai a esprimere completamente. Sono certo, però, che qualcuno riuscirà a capirmi. :)

Questo è uno dei primi post che ho scritto quando ho aperto il blog, svariati mesi fa. È uno di quelli a cui tengo di più perché rappresenta un argomento che mi sta molto a cuore. Non sono però mai riuscito a trovare le parole giuste (e anche adesso sono ben lontano dall'aver raggiunto il mio scopo).

Ma dovevo perlomeno provarci.

2 pensieri su “XXXIV, 139

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