Fra le palme le luci, e dietro ancora la musica. Sirtaki.
Abbiamo affittato questa casa bianca per scrivere. Non è stato difficile trovarla, tutti quelli che hanno bisogno di scrivere prima o poi vengono qui, e ne trovano una.
Servono poche cose: soprattutto il bianco, appunto, con macchie celesti di persiane, e aria che passi le finestre dal mare verde ai valloni delle capre.
Le capre ci danno il formaggio, gli olivi altro cibo. Per il pane c'è un cesto dal fornaio in paese. Per star su di notte, candele dappertutto.
Scriviamo ovunque, anche stesi per terra o sul parapetto della terrazza, anche a tavola invece di parlare, oppure parlando.
A me piace scrivere sulla spiaggia, a pancia sotto.
Una mattina in spiaggia ho scritto solo poesie, rigirando il quaderno. Mi venivano solo poesie. Parole e sabbia.
A volte rileggo ed è tutto color seppia. Devo sbattere il quaderno quando ce ne andiamo, ma per fortuna un po' di sabbia viene sempre con noi a casa e ce la ritroviamo dappertutto, ci scricchiola sotto i piedi e ci raspa la pelle nel letto.
Camminiamo su per il sentiero dei monaci, e quando ne incontriamo uno che scende a passi veloci butta uno sguardo grave sui quaderni che teniamo in mano. Non saluta e prosegue.
Andiamo in paese a rifornirci di pane e acqua per la nostra amata prigionia, e tu ti fermi un attimo a guardare i titoli dei giornali, di due giorni prima, mentre io scambio qualche pomodoro del nostro orto con una stecca di sigarette forti.
Dici che vuoi sapere se è arrivata la guerra, e fin dove. Poi sorridiamo ricordandoci che se è arrivata davvero è già vecchia di due giorni e quindi forse è già finita. Per sicurezza tu cerchi se nel cielo perfetto ci sono i funghi atomici, ma non c'è neanche una nuvola.
Se è esploso qualcosa, è il sole.
Un giorno hai dato il tuo orologio a un contadino in cambio di una terracotta con san Nicolò. Adesso quell'uomo è diventato succube del Tempo e noi invece devoti ad un santo che non parla. E non fa miracoli inutili.
Un altro giorno hai preso a prestito una macchina per andare fino all'estremità dell'isola, dove il mare è più grande. C'erano sassi e sterpi, e anche lì abbiamo scritto. Stavolta, tu poesie.
Una me la ricordo: «Non c'è niente da dire, qui.»
Per me è la più bella che hai scritto in quel periodo.
Quando fa molto caldo ti addormenti sul letto e lo occupi quasi tutto. Io allora mi metto a cavalcioni della finestra e scrivo, continuo a scrivere la nostra storia.
Qui non piove mai.
Ci sono delle montagne molto lontane, eppure dalle loro cime brulle e arrotondate non nascono nuvole.
La mattina presto camminiamo per chilometri coi piedi nel mare a un metro dalla riva, la schiena al sole. Parliamo di uccelli che volano e di barche da pesca. Non parliamo mai di quelli che non sono qui. E' come se avessimo smesso di amarli, di ricordarli.
I bambini girano con certi zoccoli troppo grandi, che si tolgono per giocare a pallone a piedi scalzi. Mi hai detto che devi scrivere qualcosa anche su di loro, ma prima hai altro da finire.
Io mi vesto poco, e sempre di bianco.
Un giorno ho visto che avevi scritto delle parole col pennarello su una maglietta stesa ad asciugare. Ti ho chiesto cos'è e mi hai detto è un'altra poesia.
Diceva: «Respiro di te, e sto bene».
Oggi mi sei venuto a cercare sulla spiaggia. La tua ombra mi ha svegliato.
«Ho finito il libro, sai».
E così ho capito che dovevamo tornare.
Ho raccolto i quaderni e ho piegato per bene la maglietta con la poesia, ma senza fretta.
Ho cercato di far finta di niente.
Però poi ho visto il tuo portafogli sul letto, ed era l'unica cosa scura in tutta quella nostra casa così bianca.
Uscendo abbiamo lasciato la porta aperta.
In fondo alla stradina che va alla spiaggia ci siamo scritti i nostri nomi sul dorso delle mano con gli spini dei cardi, e poi mentre la pelle bruciava abbiamo guardato lontano, nel mare, per vedere se arrivava a prenderci la barca di Stavros.